SULLA LINGUA DELLA PUBBLICITA’

 

Una lingua sincretica

Funzioni della comunicazione pubblicitaria

L’artificio della "neolingua"

 

 

 

 

 

E'necessario, all’internodi un discorso che si prefigga di analizzare il lessico della pubblicità - la sua struttura, le sue strategie e la sua evoluzione - porre sia pure sinteticamente una questione di metodo e chiarire preliminarmente la differenza fra due categorie di cui esso si giova e che ne costituiscono la struttura portante: con l’espressione "linguaggio pubblicitario" intendiamo quell’insieme di espressioni e di formule specialistiche utilizzate per designare una terminologia specialistica distinta da altri linguaggi settoriali, e al pari di questi utilizzata da un gruppo più o meno vasto di parlanti in grado di utilizzare un vocabolario riconoscibile quale sottocodice di un particolare universo professionale. Esiste dunque un linguaggio pubblicitario così come esistono il linguaggio dei chimici, degli architetti, dei critici letterari, dei bancari come l’insieme dei termini riconosciuti e codificati specificamente condivisi da coloro che agiscono entro una medesima categoria professionale.

Parlando di "linguaggio della pubblicità", d’altra parte, si intende qualificare quell’insieme di strumenti e di strategie di cui i professionisti di questo settore si avvalgono allo scopo di convincere e di persuadere un pubblico il più vasto possibile a diventare acquirente dei prodotti che quel linguaggio propone alla sua attenzione, sollecitandone la curiosità e l’interesse attraverso connotazioni specialistiche.

Il linguaggio della pubblicità, dunque, lungi dal configurarsi solo come vocabolario settoriale, deve rendersi accessibile e comprensibile al grande insieme dei destinatari potenzialmente, tutte le componenti della società; nei fatti, specifiche e ben determinate fasce di pubblico attraverso l’utilizzo di formule linguistiche che, pur restando nell’alveo della comprensibilità, tendano ad una certa originalità nella creazione di neologismi e nell’utilizzo di costruzioni inedite ed accattivanti.

Questo linguaggio, il cui scopo primario è quello di far vendere un prodotto, deve quindi contemperare sagacemente due esigenze che non sempre coincidono e operare una delicata sintesi fra espressività e comprensibilità, fra originalità e chiarezza: in definitiva, fra novità e tradizione. Come si è accennato, tale difficile sintesi non può nascere soltanto da un’operazione intellettuale, slegata dal contesto entro il quale il pubblicitario opera.

Poiché tale contesto è quello di un pubblico che adopera e riconosce un proprio per quanto variegato vocabolario standard, la pubblicità deve fare costante riferimento ad esso, sia per analogia sia per dissonanza. Il riconoscimento di un modello linguistico è di fondamentale importanza per creare un rapporto di familiarità: che poi tale familiarità venga stimolata e lusingata o al contrario capovolta e negata dipende dal tipo di strategia adottata, dal genere di prodotto pubblicizzato, dal livello culturale dei destinatari che si intende raggiungere.

Dal momento che lo strumento principale della pubblicità è la lingua il lavoro dei pubblicitari consiste sostanzialmente nell’utilizzare, manipolare, plasmare e piegare questa alle strategie della persuasione:

There is an inherent drama in every product. Our No. 1 job is to dig for it and capitalize on it. […] The personality of a product is an amalgam of many things: its name, its packaging, its price, the style of its advertising and above all the nature of the product itself.

Uno dei fenomeni più vistosi del linguaggio della pubblicità è, per esempio, quello della creazione di neologismi dal nome del prodotto reclamizzato, al fine di favorire l'evocazione di un immaginario e di una simbologia immediatamente riconoscibili ed indissolubilmente legati alla merce; la prima ricerca del pubblicitario si volge alla creazione del brand image, concetto ideato da David Ogilvy negli anni Cinquanta per indicare la personalità del prodotto. Il brand image è

il lampo di una intuizione felice (una immagine, parola o frase) capace di esprimere la qualità essenziale del prodotto e al tempo stesso, tale da creare un aggancio col destinatario, una risonanza più sicura e più efficace di quanto pazienti ricerche di mercato possano produrre;

esso è in sostanza il nucleo semantico da cui nascono sia la visualizzazione che la headline o frase di apertura, il body-copy o descrizione del prodotto e il payoff o slogan finale destinato a rimanere impresso nella mente del consumatore.

Negli anni Sessanta si poteva così assistere in Italia alla diffusione di slogan quali Lambrettizzatevi, Opelizzatevi, Ramazzottimisti; per quanto effimeri e di breve durata, essi sono esempi significativi dell’incessante tentativo di creazione di gruppi socialmente definiti, accomunati da medesimi consumi e preferenze commerciali, e la loro principale caratteristica, cioè la forte valenza espressiva, li rendeva strumento per eccellenza nella creazione di un "lessico famigliare" nel quale gli acquirenti possano riconoscersi.

Si può al proposito sottolineare una certa somiglianza fra linguaggio della pubblicità e linguaggio della stampa periodica: entrambi puntano, infatti, alla massima diffusione presso ogni strato della popolazione, e sono dunque tenuti a risultare sempre comprensibili pur badando a conservare quella coloritura espressiva e formale che li distingua da altri codici linguistici.

Il messaggio pubblicitario, in quanto frutto di procedure comunicative complesse, è il prodotto finale di una semiotica "sincretica", vale a dire basata su un linguaggio che fa ricorso - fondendone le strategie e le tecniche - a più codici paralleli: visivo, verbale, tonale, gestuale, oggettuale; come ogni altro messaggio, quello veicolato dalla pubblicità si dispiega lungo una catena comunicativa composta dalla sequenza Emittente - Canale - Messaggio - Canale - Ricevente.

Sarebbe incongruo esaminare il testo pubblicitario soltanto dal punto di vista dell'emittente, come si trattasse di un tipo di comunicazione asettica e non, al contrario, assolutamente bisognoso di un pubblico ed implicato in una dinamica di scambio; ma stonerebbe anche l'atteggiamento critico opposto, cioè l'analisi della struttura dell'advertising nei suoi riflessi sul ricevente, quando tralasciasse del tutto il complesso ambito teorico su cui si basa.

E' in termini di Gestalt, di configurazione globale, che i singoli elementi verbali e iconici compongono un campo, un contesto in cui il messaggio, il testo pubblicitario trova la sua ragione comunicativa totale.

La lingua della pubblicità è stata per più di un trentennio uno dei campi di indagine prediletti dagli studiosi: linguisti e non linguisti hanno studiato i messaggi pubblicitari al fine di coglierne ogni peculiarità grammaticale, sintattica e stilistica. E' peraltro il caso di ricordare che

l'espressione stilistica è solo un aspetto, diciamo una sola faccia della medaglia o il 'verso' di un foglio il cui 'recto' è fuori della lingua, ed è in sostanza la presentazione visiva di una merce:

come si è già accennato, l'innesto sempre più massiccio di segni iconici nel messaggio pubblicitario rende impossibile un esame di questo che ne trascuri l'importantissimo, ed oggi prevalente, aspetto visuale.

La componente linguistica ha la funzione di "ancorare" il messaggio, di fissare il significato da attribuire all'immagine, di per sé ambigua e polisemica. Essa svolge dunque un compito di chiarificazione, di accompagnamento del destinatario all'interno del messaggio, di decodificazione dei segnali inviati.

Questa funzione spesso didascalica ha fruttato alla lingua della pubblicità

un grande prestigio verbale presso un'ampia schiera di parlanti

ed al contempo il sospetto e l'ostilità di molti studiosi della lingua, convinti che un registro verbale che faccia sistematico ricorso a frasi fatte e ad espressioni spogliate della loro complessità e ricchezza costituisca,

soprattutto per quanti sono gracili lessicalmente e dispongono di esili nozioni grammaticali e sintattiche,

un mediocre modello di comportamento linguistico. Inoltre il linguaggio della pubblicità è stato a lungo ritenuto colpevole del processo di semplificazione e mercificazione della lingua; si è osservato che in Italia il rapporto che si instaura fra il linguaggio della pubblicità e la lingua è duplice: da una parte questo linguaggio sfrutta e accentua le possibilità espressive dell'italiano contemporaneo, dall’altra, tendendo a creare la parola-merce, cioè l'assoluta corrispondenza fra il marchio e l'oggetto, esso

favorisce quel fenomeno di anemia della lingua, che è oggi in uso chiamare reificazione o mercificazione linguistica.

L'uso crescente di sostantivi, la parallela diminuzione dell'impiego dei verbi, la diffusione di automatismi linguistici, la creazione di "mostri" risultanti dalla fusione di termini pescati dai più differenti vocabolari sono fenomeni che possono essere anche letti come segnali di un imbarbarimento della lingua ad opera dei pubblicitari.

D'altra parte, fra gli studiosi vi è stato chi ha individuato i meriti del linguaggio della réclame: la comunicazione pubblicitaria

ha dimostrato e sollecitato senza contaminazioni le capacità e le possibilità dell'italiano come lingua moderna agile e funzionale, in una serie di spinte e controspinte, in un dilatato e accelerato processo di europeizzazione.

Entrambe le posizioni teoriche rilevano precisi dati di fatto: se il linguaggio pubblicitario ha esercitato una positiva influenza nell’opera di svecchiamento di un italiano accademico e lontano dall’uso quotidiano, favorendo modalità sintattiche più agili e lineari come la costruzione diretta o la frase nominale - permettendo in definitiva a molti la conquista di una maggiore familiarità con la lingua - è vero d’altro canto che esso ha condotto molti parlanti quegli stessi che ne hanno assorbito le costruzioni semplici e irriflesse ad una pigrizia e ad una passività intellettuali che sembrano accontentarsi di formule in apparenza efficaci, ma stereotipate e superficiali.

La forza di penetrazione di tali formule risiede innanzitutto nel fatto che esse nascono all’interno di una griglia di regole e di convenzioni ben definite, adatta a una sistematica decostruzione dall’interno. Quella del pubblicitario è una lingua che "fa deragliare le parole, viola le nostre attese linguistiche"; le sue modalità di scrittura

si prefiggono il compito di svegliarci dalla letargia delle nostre quotidiane abitudini linguistiche, cercano di creare stupore, sorpresa.

Il linguaggio pubblicitario è teso dunque partendo da una consuetudine a provocare un deragliamento dai percorsi accettati, a creare uno choc verbale, un effetto di straniamento: l’efficacia del messaggio potrà dipendere sia dall’utilizzo di vocaboli nuovi e di concetti inusitati all’interno di un contesto "regolare" sia dall’immissione entro un sistema linguistico inatteso di parole usuali, le quali a contatto ed in contrasto con il nuovo "ambiente" linguistico e semiotico obbligheranno il lettore a mettere a punto un diverso genere di decodificazione.

La relazione che un segno intrattiene con gli altri segni, concetto cardine della teoria strutturalista, non sembra capace di superare la nozione di testo come entità discreta, separata, basata esclusivamente su una struttura autonoma; il concetto di intertestualità introduce la necessità per il testo di porsi in relazione con gli altri testi, così come un medium interagisce con gli altri media per creare il contesto all’interno del quale situare la fruizione del testo. La campagna pubblicitaria della vodka Absolut è un esempio piuttosto chiaro di questo meccanismo: solo nel momento in cui il fruitore può richiamare l’intera serie delle immagini utilizzate in diversi manifesti (la bottiglia fotografata in contesti diversi, accompagnata dallo slogan Absolut associato alla particolare situazione) egli comprenderà l’advertising in cui alla scritta Absolut London è associata l’immagine del bobby che fa la guardia davanti al numero dieci di Downing Street. Nel momento in cui chi guarda sa che deve cercare l’immagine della bottiglia e lo sa perché ha visto una serie di pubblicità collegate egli riesce a scorgerne la forma in trasparenza, che prima era potuta passare inosservata e che per un lettore ignaro della storia narrata da questa pubblicità resta invisibile e comunque poco comprensibile. L’identificazione del codice interpretativo più appropriato per una campagna serve dunque a identificare l’osservatore come membro di un gruppo di sapienti; e ogni rinnovato atto interpretativo, di immagine in immagine, serve a confermare la sua partecipazione al gruppo e la sua padronanza del filo che collega un testo all’altro.

Funzioni della comunicazione pubblicitaria

Roman Jakobson descrive, nel saggio Linguistica e poetica, uno schema delle funzioni della comunicazione che si rivela essenziale alla comprensione dei meccanismi della lingua della pubblicità: qualunque tipo di comunicazione è caratterizzato da sei fattori costitutivi, cioè mittente, destinatario, contesto, contatto, codice, messaggio.

A ciascuno di questi fattori corrisponde una funzione linguistica precisa; di queste sei funzioni nessuna può monopolizzare il messaggio ed escludere le altre, ma convive di volta in volta con alcune di esse, assumendo posizioni più o meno importanti: nel linguaggio pubblicitario, le funzioni quasi costantemente dominanti sono quella conativa e quella emotiva. Le sei funzioni di Jakobson sono:

  1. funzione denotativa (o referenziale)
  2. funzione fàtica (o di contatto)
  3. funzione conativa (o imperativa)
  4. funzione metalinguistica
  5. funzione emotiva (o espressiva)
  6. funzione estetica (o poetica)

La lingua della réclame impiega diversi sottocodici - da quello tecnico a quello letterario - e vari registri - dal basso all'alto, dall’informale al formale - privilegiando in genere la costruzione paratattica rispetto a quella ipotattica, l'uso di frasi nominali brevi e addirittura uniproposizionali;

talora il pubblicitario si avvale di un linguaggio ispirato ad una grande semplicità e immediatezza, ma ci sono casi in cui fa uso, sia pure con parsimonia, di termini difficili per il grande pubblico […], infine può, talvolta, ricorrere ad un dialetto o, per meglio dire, ad uno pseudo-dialetto, in parte italianizzante.

I messaggi pubblicitari possono essere costruiti con parole che inducono uno choc linguistico (le cosiddette catchwords, "parole che intrappolano") o, per contro, con materiali linguistici di disarmanti banalità e piattezza; possono, infine, nascere dal riutilizzo in altro contesto di un frasario - poetico, letterario, aulico - precostituito e già codificato. Ne viene, in definitiva, una lingua composita, ricca di elementi eterogenei e spesso di effimera durata semantica; di frequente deformata dalla pressione degli stereotipi, talvolta vivacizzata e rafforzata da parole-esca che ne fanno uno strumento efficacemente seduttivo:

La tecnica pubblicitaria, nei suoi esempi migliori, sembra basata sul presupposto informazionale che un annuncio tanto più attira l'attenzione dello spettatore quanto più viola le norme comunicative acquisite (e sconvolge quindi un sistema di attese retoriche).

Di fatto, la pubblicità vive - almeno dal punto di vista linguistico - di furti, o quanto meno di prestiti: essa accumula ed utilizza, forzandole al limite delle loro potenzialità strutturali ed espressive, le forme lessicali e sintattiche, le tendenze dello scrivere e del parlare contemporaneo, cioè tecnicismi e vocaboli scientifici o pseudo-scientifici che hanno lo scopo di conferire valore e autorevolezza alle affermazioni contenute nel messaggio. Dal punto di vista visivo, tale effetto viene ad esempio raggiunto con l’utilizzo di testimonial in camice bianco o comunque abbigliati in modo da suggerire serietà e professionalità, mentre il registro verbale è infarcito di espressioni del tipo "seguire attentamente le avvertenze e le modalità d’uso", tratte dallo stile dei foglietti che accompagnano i farmaci in commercio. Quello della expertise si presenta, nella pubblicità, come un vero e proprio mito: la competenza è di solito presentata come valore inattaccabile e indiscutibile, un bene assoluto per l’uomo moderno, da cui derivano efficienza, potenza, dominio. Il mito dell’esperto

[è] associato ad alcuni prodotti industriali come l’automobile, le fonti energetiche e coloro che le maneggiano, ogni strumento a contenuto tecnologico come lavatrici, lavastoviglie, giradischi etc..

Esso ricorre però anche in altri contesti: lo spot della multinazionale Del Monte, trasmesso in versioni pressoché identiche negli Stati Uniti e in Europa, si inquadra nel contesto descrittivo del report da paesi esotici. Qui lo specialista è muto, si esprime a gesti che vengono interpretati e trasmessi come un oracolo, strumenti di rivelazione. Una voice off maschile dal timbro grave e sentenzioso accompagna le azioni sullo schermo (l’uomo Del Monte assaggia un ananas e fa un gesto di approvazione; un assistente comunica agli indigeni, attraverso una trasmittente, il via libera al raccolto):

It takes well over a year for a pineapple to reach perfect ripeness. The man from Del Monte knows that moment. The man from Del Monte says ‘yes’. The man from Del Monte says ‘yes’! He then insists that the pineapples are picked and packed the same day. Say ‘yes’ to the best. Del Monte.

L’afasia dell’esperto è in questo caso compensata dall’autorevolezza e dall’esaustività della voce fuori campo che, sul modello delle news televisive, commenta in diretta tutte le fasi dell’operazione.

In questo caso, la pubblicità sceglie di esibire un rigore esteriore che può indurre nel destinatario l’impressione di assistere ad una dimostrazione scientificamente inoppugnabile; si tratta invece di uno dei molteplici esempi di "travestimento", di prestito o accaparramento di linguaggio specialistico che costituiscono il serbatoio – virtualmente inesauribile – cui l’advertising attinge per fingersi, di volta in volta, serio o scherzoso, accattivante o rigoroso. Sempre al posto di qualcosa d’altro, nelle vesti linguistiche di qualcos’altro: la lingua della pubblicità sembra infatti non esistere in quanto tale, ma esclusivamente come rinvio ad altro, metonimia, spostamento simbolico, approssimazione infinita ad un’immagine che non possederà mai ma, in compenso, potrà essere evocata, imitata, messa in scena e resa, a forza di emulazione, più vera del vero.

Si consideri l’esempio dei poster della pubblicità inglese delle sigarette Silk Cut, consistente nell’immagine di un drappo di seta viola segnato da un taglio centrale, come di rasoio, e quello delle sigarette Marlboro. Nel primo caso nessuno slogan descrive il prodotto; la sola scritta che compare è l’avvertimento (l’obbligatorio Government Health Warning) sui danni provocati dal fumo. Si tratta di una specie di rebus, della rappresentazione iconica di un vuoto: la sua decodifica esige un determinato livello di conoscenza (essere al corrente del fatto che Silk Cut è una marca di sigarette); l’immagine delle Marlboro rappresenta un cowboy in atteggiamento pensoso e spavaldo al tempo stesso, e lo slogan è un esplicito invito all’avventura: Come to where the flavour is. Come to the Marlboro Country. All’uso della metafora nell’advertising delle Silk Cut – sigarette che danno un piacere sensuale, morbido e quasi tattile – si sostituisce l’utilizzo della metonimia nella pubblicità delle Marlboro – la virilità e il fascino del fumatore sono attributi e al tempo stesso effetti del prodotto reclamizzato. Nel primo caso si ha dunque il ricorso al meccanismo della similarità tipico della metafora, per cui un oggetto ne sostituisce un altro; nel secondo è in causa la contiguità metonimica, dove un particolare attributo dell’oggetto lo riecheggia nella sua totalità.

Tullio De Mauro afferma che nella pubblicità i segni linguistici hanno un ruolo chiaramente subalterno; se è vero che l'obiettivo della pubblicità è quello di "orientare in modo inequivoco le linee direttive di condotta dei membri di un gruppo", l'uso del solo linguaggio verbale risulta insufficiente a realizzarlo:

i segni linguistici hanno per loro caratteristica quella di possedere una pluralità di sensi, di concrete significazioni e applicazioni. Anche la più semplice e meno equivoca delle frasi, per esempio 'apri la porta!' […] è […] costituzionalmente polisensa.

Per far sì che il messaggio pubblicitario sfugga ad ogni dubbio interpretativo il segno verbale deve essere accompagnato da formule figurative e a queste apparire funzionale.

Tornando alla classificazione dei segni linguistici e delle loro funzioni elaborata da Jakobson, possiamo dire che il linguaggio della pubblicità è l’ambito di elezione della funzione conativa dei segni: attraverso di essa, i segni vengono organizzati

più che in base alla situazione da comunicare, […] in base alle prevedibili o desiderabili reazioni del destinatario. […] la pubblicità non inventa, ma asseconda e sfrutta tendenze già presenti tra i destinatari.

Da ciò seguirebbe che la pubblicità, lungi dal costituire una fucina di innovazioni ed un mezzo potentissimo di creazione di bisogni, può solo dar vita a formule rigorosamente soggette alle abitudini ed alle capacità linguistiche già stabilmente acquisite dal pubblico.

La caratteristica di subalternità che De Mauro attribuisce alla lingua pubblicitaria non va, comunque, intesa come una valutazione negativa: è in effetti fuori di dubbio che il messaggio pubblicitario non esiste come forma comunicativa autonoma, ma resta sottomesso a legami di dipendenza dalle immagini, dagli usi linguistici in vigore ed infine dal più generale fenomeno di evoluzione della società a cui esso, per la sua stessa natura, partecipa.

A dispetto di questo statuto di subalternità, del resto, il linguaggio pubblicitario possiede una sua organicità, visibilità e consistenza strutturale che altri codici e strutture linguistici speciali - funzionali ad un particolare gruppo sociale o professionale - non possono vantare. Esso riesce infatti, pur nascendo come lessico finalizzato a determinati obiettivi, a superare le differenze sociali e di classe: ed anche se è eminentemente un prodotto ed uno strumento al servizio esclusivo della distribuzione industriale, la pubblicità esercita la propria influenza su destinatari appartenenti alle fasce sociali più diverse.

 

L’artificio della "neolingua"

Il potere che deriva alla pubblicità dalla possibilità di manipolazione della lingua consiste innanzitutto nella capacità di imporre dei modelli ad una comunità da essa stessa artificiosamente creata e che si identifica con un pubblico internazionale - o meglio, sovranazionale - il quale, al di là delle separazioni linguistiche, ne riconosce i segni in qualunque contesto ed all'interno di qualsiasi cornice culturale;

col progressivo allargarsi dei mercati e con lo sviluppo tecnologico si è costituito un lessico merceologico su scala mondiale, si è estesa la sfera d'azione degli elementi morfologici, classificatori, interlinguistici, soprattutto prefissoidi e suffissoidi, e anche di schemi sintattici, mentre nella comunicazione pubblicitaria tende ad avere peso e rilievo sempre maggiore l'elemento extralinguistico o metalinguistico offerto dall'immagine della merce o dal marchio: una 'neolingua' e un metalinguaggio fondati su un sistema di nomi brevettati e di ideogrammi merceologici.

Il denominatore comune della pubblicità è costituito, oltre i confini nazionali, da un sistema di immagini e di simbologie che conferisce alla merce - comunque reclamizzata, comunque inserita in un contesto contingente - un profilo di familiare riconoscibilità.

Per esemplificare il meccanismo di adattamento che le diverse strutture linguistiche impongono ad uno stesso pattern pubblicitario, Folena ha analizzato lo storico slogan di un carburante Esso, reclamizzato in Italia con la perentoria esortazione Metti un tigre nel motore.

Se l’intento comune delle diverse campagne fu quello di concentrare in una frase breve ed immediata l’energia, la velocità e l’aggressività propri dell’animale evocato (ma declinato al maschile, come a conferirgli un surplus di potenza) e, si suggerisce, del carburante reclamizzato, le diverse lingue offrono possibilità ed impongono limiti che obbligano il pubblicitario ad elaborare soluzioni ad hoc. In inglese (I’ve got a Tiger in my Tank), in tedesco (Tu den Tiger in den Tank) ed in spagnolo (Mete un tigre en el tanque) la tigre è "inserita" nel serbatoio, non solo in omaggio alla logica che vuole la benzina in quel particolare contenitore, ma soprattutto per sfruttare le potenzialità evocative della allitterazione della |t| fra i termini che designano i due elementi essenziali del messaggio: l’animale e la macchina. In italiano ed in francese (Mettez un tigre dans votre moteur), invece, la parola "giusta" (serbatoio, réservoir) non stabilisce nessun legame fonetico con tigre, e si procede dunque alla sua sostituzione con motore che, se non rispetta le leggi della combustione, certo provoca una amplificazione della metafora e le conferisce una astrazione e una suggestione più forti:

la tigre […], non più prigioniera del serbatoio, non si identifica più tout court col liquido immobile immessovi dalla pompa, ma con la sua operazione attiva e diviene un’essenza (in francese la benzina è appunto essence), più sottile e dinamica, una pura energia vitale che anima il motore.

Le particolarità dei codici linguistici costringono dunque ad elaborare messaggi tali da aggirare – amplificando la potenza evocativa dei segni – le gabbie della norma ed i limiti della grammatica per conferire allo slogan una fisionomia particolare ed una connotazione autonoma. Al tempo stesso, le caratteristiche dei differenti slogan sono tutte riconducibili ad una medesima idea di espressività ritmica e dinamica che li rende in qualche modo riconoscibili, al di là delle differenze, come espressioni linguistiche di una stessa strategia – l’istituzione di un parallelismo immediato fra il prodotto e l’idea di potenza e di modernità.

Da un esame comparativo – che è qui solo abbozzato in quanto altri elementi comuni ed altre differenze potrebbero essere sottolineati - si ricava che l'elemento costante di condizionamento, nella differenza delle realizzazioni sintagmatiche proprie dei singoli e differenti ambienti linguistici, sono il ritmo dello slogan, la sua cadenza:

si vede di qui quanto i fattori prosodici siano importanti in questa oratoria merceologica e insieme in questa 'arte di consumo' o pop art o Gebrauchskunst o art d'assouvissement che è il linguaggio della pubblicità.

Ad esempio l'effetto di straniamento è garantito, nella versione italiana, dalla scelta del genere maschile (un tigre), e il rovesciamento della regola grammaticale coincide con quello scarto dalla norma che rende il messaggio nuovo e familiare al tempo stesso.

Straniante è già, del resto, lo slittamento sistematico che il messaggio pubblicitario mette in atto fra il piano della funzione referenziale (fornire informazioni sulle caratteristiche del prodotto, spiegandone i vantaggi ed i pregi) e quello della funzione conativa, subito dominante in un linguaggio il cui scopo principale è quello di influenzare l'ascoltatore e indurlo a compiere azioni già pianificate.

In questo discorso informativo sulla merce la pubblicità rivela la propria natura ambigua nel momento in cui fa coincidere discorso e merce:

non solo perché il testo è 'venduto' dal pubblicitario al produttore, ma anche perché, se lo slogan funziona (ovviamente interagendo con l'immagine, con la musica, ecc.), i futuri acquirenti del prodotto non comprano il prodotto per se stesso, ma per quella suggestione (di bellezza, di gioventù, di forza, di prestigio, ecc.) che il pubblicitario ha saputo associare e addirittura sostituire al prodotto

attraverso l'uso di formule che conducono al limite del collasso la struttura linguistica: ellissi del verbo, aggettivi in funzione avverbiale, sviluppo del ruolo del sostantivo attraverso suffissi, prefissi e composti, prestiti da lingue straniere.

La lingua della pubblicità, altrettanto e più flessibile della lingua naturale, tende a configurarsi come una costruzione artificiale. Essa non prevede, difatti, alcuna dinamica di scambio, di feedback inteso come progressivo aggiustamento della comunicazione fra chi parla e chi ascolta.

La lingua pubblicitaria […] ha la caratteristica di non prevedere risposta e di non attenderla.

Il suo unico scopo è quello di ottenere un effetto – quello di indurre all’acquisto – e si può dunque affermare che la sua forza perlocutiva è costante. Il ricevente deve ubbidire alla disposizione contenuta nella proposizione:

questo permette di interpretare come un invito a comprare anche un messaggio ben poco esplicito in sé,

che avrà sempre l’intento di ottenere l’adesione dell’ascoltatore, attraverso l’utilizzo di un vasto repertorio di strumenti retorici. In quanto fatto unificante, teso alla creazione di un lessico riconoscibile e familiare, la lingua della pubblicità deve tuttavia utilizzare con cautela gli attrezzi della retorica, pena la scarsa leggibilità dei messaggi e la loro estraneità ad alcune fasce di pubblico. Il dialetto è un significativo esempio di strumento stilistico che - seppure potenzialmente assai efficace per la creazione di una atmosfera di familiarità e di vicinanza fra prodotto e acquirente – rischia di particolarizzare in misura eccessiva il messaggio, limitandone di conseguenza l’effetto. Il ricorso ad elementi dialettali ed a regionalismi è dunque piuttosto circoscritto, ed in ogni caso si giova di

elementi talmente stereotipi da essere comprensibili in tutta Italia […]. Ciò non toglie che a quello stesso pubblico […] a cui si vuol andare incontro con modi del parlato ci si rivolga poi con termini pseudotecnici, di cui esso non può immediatamente valutare la vuotezza.

Lo sfruttamento delle particolarità dialettali ha comunque un suo scopo nella misura in cui attraverso di esso si suggerisce l’idea di una penetrazione del prodotto nel tessuto più profondo e più vero del Paese: il passaggio da una comunicazione asetticamente corretta alla voce caratterizzata e sporca del singolo consumatore, la mimesi della lingua parlata esprimono in maniera immediata ed inequivocabile l’identificazione fra consumatore e cittadino.

L’utilizzo del dato di collocazione geografica e di identità culturale si riscontra anche nel caso dell’utilizzo delle lingue straniere, che in pubblicità tende a riflettere lo status ed il prestigio che di volta in volta sono associati ad esse.

L’inglese, ad esempio – oltre ad essere la lingua di origine di molte campagne pubblicitarie – si configura come strumento privilegiato allo scopo di attribuire caratteristiche di serietà, professionalità, affidabilità ai prodotti reclamizzati, quelle stesse caratteristiche che vengono collegate alla cultura ed al progresso dei paesi anglosassoni; mentre al francese si fa ricorso di preferenza per i messaggi che accompagnano prodotti cosmetici o di alta moda.

In ogni caso, sono oramai numerosi gli slogan che contengono termini stranieri, quando non sono addirittura in inglese o in francese. Ciò avviene in vista di un duplice scopo: da una parte, rivolgersi al pubblico in una lingua straniera produce l’effetto di lusingare la parte di esso che non ne è padrona, riconoscendole implicitamente la capacità di comprenderla e nutrendone la falsa certezza di essere colto e raffinato. D’altro canto, l’uso delle lingue senza traduzione o aggiunte esplicative fornisce un’impressione di immediatezza e di maggiore genuinità del prodotto, quasi esso fosse una primizia appena giunta dall’estero e proposta nella sua veste di esotismo a coloro che sapranno apprezzarne le qualità.

Ogni lingua riassume in sé un certo numero di stereotipi; per l’inglese, essi sono diversi, a seconda che esso stia per l’Inghilterra (vecchie tradizioni, tè alle cinque, castelli e brughiere, gentlemen, fair play […]) o l’America (tecnicismo, business […], cowboys, lontano west). Questi stereotipi vivono anche al di fuori dell’uso effettivo della lingua: essi rappresentano una costellazione di segni […] di cui la lingua è l’epifania più evidente.

La frequenza d’uso dell’inglese e, in seconda istanza, del francese, è incommensurabile a quella delle altre lingue. Si nota difatti una forma di ghettizzazione, per cui il tedesco o lo spagnolo (spesse volte confuso e frammisto ad espressioni portoghesi) sono confinati all’accompagnamento di prodotti provenienti dai paesi nei quali quelle lingue vengono parlate. In definitiva, le lingue delle nazioni la cui presenza culturale è ancora piuttosto circoscritta vengono utilizzate quasi esclusivamente come evocatrici di distanza e come produttrici di un effetto di straniamento, allo scopo di simboleggiare una vastità ed una sconfinatezza di orizzonti che dovrebbero attribuire ai prodotti un’aura di indefinito esotismo.

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